Camera Café. Educazione cinica al retrogusto di caffè.
Era l’alba del nuovo millennio, più precisamente il 2001, quando gli uffici del pianeta vennero presi di mira non solo dal rischio di atterraggi inattesi (leggere alla voce 11 settembre – nda) ma anche dall’arrivo di un programma che volenti o meno avrebbe cambiato il modo di vedere la nostra esistenza. Un’esistenza fatta di troppi lunedì e poche ferie. In cui lavorare è un obbligo e le forme di difesa adottate da ognuno, per trascorrere il tempo non necessariamente in maniera produttiva e schivando le vessazioni dei superiori, diventano il nostro pane quotidiano.
Realtà fatte di colleghi che mai incontreremmo al di fuori delle nostre otto ore di lavoro e soprattutto piene di molti, tanti, troppi, caffè. In questo panorama di sconfitta quotidiana l’autore transalpino Bruno Solo, vicino ai temi ambientali e non immune a un modo laterale di osservare la vita, ebbe l’idea, assieme a un amico di vecchia data, Yvan Le Bolloc’h, ex docente, marxista convinto e autore radiofonico, di dare vita a una rivoluzione della durata di tre minuti circa a puntata.
Tre minuti per mostrare ai loro connazionali come siano al cospetto di colleghi e superiori nel momento catartico della degustazione di un caffè del distributore automatico, il tutto attraverso un punto di vista privilegiato: Le riprese delle nostre ‘malefatte’ provengono proprio dal distributore con vista sull’area relax.
Solo e Le Bolloc’h scelsero di firmare il pilota della serie riservandosi la parte dei protagonisti, rispettivamente Hervé Dumont, delegato sindacale e responsabile acquisti, e Jean-Claude Convenant, venditore di punta della stessa azienda del quale ignoriamo il nome ma in cui il concetto di produttività è quanto meno fantasioso.
A due anni di distanza dall’esordio molto convincente sulla rete transalpina M6, e sfruttando i medesimi set per girare un nuovo ‘pilota’, ITC movie insieme a Magnolia, oggi Benijai Italia, decisero di provare a importare nel nostro paese il format transalpino, esattamente come accadeva in quasi ogni angolo del pianeta. Uniche eccezioni i paesi anglosassoni (Irlanda e Australia a parte), forse perché poco avvezzi a bicchierini di caffè e più inclini a contenitori extralarge.
Come in tutte le altre versioni anche per Camera Café Italiano si adottarono i medesimi set, colori e sigla, preannunciata da un bicchierino di carta che accoglie la bevanda. A impersonare i protagonisti Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, duo genovese ed ex membri del collettivo comico cavalli marci. Anche loro, esattamente come gli omologhi d’oltralpe, nei ruoli di un delegato sindacale e responsabile acquisti e del responsabile vendite di un’azienda innominata per tutte le stagioni ma per la quale, guarda caso, tutti hanno poca voglia d’impegnarsi.
Subito dopo ‘il pilota’, girato sul set parigino e in cui comparvero anche Alessandro Sampaoli, nel ruolo di Silvano Rogi, Paolo Bufalino in quello di Andrea Pellegrino, il manesco autista del presidente. Debora Villa, nel ruolo di Patty D’imporzano, fiamma non troppo segreta di Silvano, e Giovanna Rei nella parte di Giovanna Caleffi, la centralinista aziendale, il cast era già quasi al completo. Ai due comici Liguri si aggiunsero questi e altri attori equivalenti ad altrettanti stereotipi; Silvano, il contabile impacciato e mammone, l’impiegata di facili costumi, la segretaria zitella e giudicata ‘la più racchia dell’azienda’, il direttore facile all’insulto e molti altri che si alternarono nel corso delle stagioni successive.
Nel frattempo mentre oltralpe Camera Café mieteva ancora successi e ascolti, la versione tricolore ne otteneva altrettanti, grazie alla traduzione di tutti gli episodi composti da sketch con narrazione sincopate, in bilico fra la barzelletta e il teatro dell’assurdo. In cui le sole cose immutabili sono l’area relax, leggermente modificata nel tempo, e i protagonisti del singolo episodio che grazie alle iperboli alle quali ci hanno abituato hanno saputo dare vita alla peggiore, o migliore (a voi la scelta) versione di noi stessi. Per mezzo di un’introspezione alla quale potevamo assistere da un’angolazione privilegiata (il distributore).
Tutti cinici con i deboli e a loro volta vittime di situazioni che sconfinano dal servilismo, al bullismo, ai valori distorti della famiglia, fino all’odio per le minoranze, etniche, di genere e di preferenza sessuale. Difficile rimanere insensibili, dopo la risata iniziale, davanti a chiacchiere e bassezze che tutti, o quasi, compiono gli uni contro gli altri. Al punto che è normale creare un transfert fra noi e quello al quale assistiamo sullo schermo.
Tutto varia a cavallo del nuovo decennio. La serie capostipite aveva esaurito la propria curva narrativa. Sia per desiderio degli autori, inclini a passare ad altro, sia per degli ascolti sempre più bassi. A quel punto Mediaset e la produzione di casa nostra ebbero l’idea di far vivere di vita propria Camera Café Italiano. Introducendo nuovi personaggi. Su tutti lo psichiatra aziendale Guido Geller, dedito a test, citazioni e aneddoti.
Il nuovo Camera Café gode di situazioni lavorative in grado di spostare l’attenzione dal qui e ora, il singolo episodio, a un arco narrativo di più ampio respiro. Prima la fusione con la tanto odiata Digitex (nell’originale Digix – nda). Competitor del ‘piano di sopra’. E poi arrivando all’acquisizione, per ovviare alla crisi di mercato, da parte di una multinazionale Cinese, con sede situata al ‘piano di sotto’. Fino a narrare di matrimoni tra colleghi, nascite di amori, di relazioni e prolungando abilmente l’uscita sia di bicchierini, sia di battute come sempre al vetriolo capaci di mietere share di primissima qualità.
La produzione invece di demoralizzarsi seppe quindi dar vita a una versione 2.0 di Camera Café di indubbio successo. A tal punto che la sesta e ultima stagione, in cui apparvero in un episodio anche i due inventori della serie francese, Solo e Le Bolloc’h, permise al format di sbarcare in RAI, non prima di aver creato non poco astio fra i creatori e gli attori del cast, perché non tutti confermati.
Fra le vittime illustri: Debora Villa, presente fin dall’episodio pilota, e Carlo Gabardini, alias Olmo Ghesizzi, precario del CED, ma soprattutto coautore della deriva autoctona e capace di creare un giusto mix di narrazione e innovazione al punto che gli stessi Solo e Le Bolloc’h ammisero come la versione Italiana avesse raggiunto vertici narrativi del tutto inattesi.
A distanza di ormai un lustro dalla fine della serie italiana difficilmente risentiremo parlare di c-14, prodotto ignoto venduto dall’ ‘azienda innominata’. Ma cosa ci rimane del format che nacque oltre venti anni fa dalle menti di due autori francesi? Probabilmente una semplice e lunga storia d’ufficio, ovvero un non luogo dove si trascorre sempre troppo tempo dando il meglio ma anche il peggio di noi. Una lunga storia aziendale scomposta in centinaia di episodi, 570 e uno speciale, per essere precisi, in cui alla fine è facile rivedersi ridendo e riflettendo su noi stessi.