Il suo nome era Philip Seymour Hoffman

a cura di Ciro Andreotti

L’han trovato con l’ago ancora piantato nel braccio, riverso nel bagno di casa nel cuore del west village, nella sua New York, ovvero li dove estro artistico e mondo della cultura alternativa la fanno da padrone. Una bella scossa di adrenalinica paura per il cuore più vivo e pulsante della ‘Mela’ e dell’establishment hollywoodiano. Una scossa di paura mista a rabbia che ha reso il corpulento attore originario di Fairport più simile a una rockstar che non a un semplice grande attore, perché la sua è una fine degna di Morrison, di Sid Vicious, di altri membri del Club 27. Una fine non molto comune a troppi attori, sicuramente non una fine normale per un attore di chiara fama mondiale. Si perché il rosso dello stato di New York, da sempre appassionato di recitazione, era, anzi è, di certo una delle più fulgide, camaleontiche e ingombranti presenze del grande schermo, così bravo quanto poco fotogenico, così abile e trasformista quanto poco incline a essere divo pur essendolo.

Protagonista della pellicola di Bennet Miller del 2005: “A Sangue Freddo”, nel ruolo dello scrittore Truman Capote

Cresciuto con il mito del cinema indipendente, si diploma in arte drammatica nel 1989 nella sua New York presso la Tisch School of Drama. Da qui spicca il volo ma non senza qualche difficoltà iniziale perché per uno come lui il mondo del teatro e della recitazione potrebbero aprire le loro porte dorate solo a patto di essere uno fra i migliori. Nel frattempo fra la lettura spasmodica di Sailinger e tanto off-Broadway si affinano le capacità di un attore che solo arrivato al cinema indipendente, grazie a due pellicole Triple Bogey e Par Five Hole del regista, ovviamente indipendente, Amos Poe, riesce a mettersi finalmente in luce. A Venticinque lune viene chiamato a interpretare il ruolo di un compagno di college di Chris O’Donnell, nel remake hollywoodiano di ‘Profumo di Donna’, il ruolo affidato al rosso è quello di un figlio di qualche ricco possidente o avvocato della solita ‘Mela’, sempre lei. La parte che il regista Martin Brest gli affida inguaia il giovane O’Donnell che arriva a un passo, uno solo, dall’espulsione; il suo volto lentigginoso sarebbe da prendere a cazzotti, il teatro off-Broadway lo riesce a rendere ancora più cinicamente odioso; lui, il rosso, ci mette il resto del suo talento e il gioco è fatto, è nato per quel momento, un grande caratterista, perfetto, lo crede chi scrive, per continuare a dividersi fra il teatro e mille ruoli da villain: cattivo, stupido, cinico e perché no anche baro.

Nella realtà il rosso continua a mietere successi, viene scelto per ruoli sfaccettati, complessi, dove il suo fisico corpulento e la sua arte possono essere sfruttate al meglio. Rifiuta parti, spesso anche in produzioni stellari, ne interpreta altre. Passa indifferentemente da membro del mondo del porno anni’70, “Boogie Nights – L’altra Hollywood”, a fido inserviente in grandi successi mascherati da film indipendenti, “Il grande Lebowsky”. La grande occasione gli viene offerta nel 2005 con il ruolo di Trumane Capote in “A sangue freddo”, una parte che gli regala la statua ma che non aggiunge nulla alla sua arte, chi lo vede dice che però il rosso è Capote molto più dello stesso Capote, con buona pace di qualunque colazione da Tiffany.

Cooper Hoffman (a sinistra) e suo padre

Personale ricordo: poche parole con la voce roca e fumata del ‘nostro’ Francesco Pannofino nel ruolo del “Conte”, deejay Made in USA in “I Love radio Rock”, una pellicola misconosciuta firmata da Richard Curtis riguardante il fenomeno delle radio pirata inglesi dei‘60. Un bell’esercizio di stile con tonnellate di rock e rhythm and blues a farla da padrone, che il rosso è anche drogato di musica di ogni genere, sia ben chiaro. Poi però qualche cosa non torna più. Quell’ombra che lo inseguiva sotto forma di un ago si ripresenta dopo decenni; la coppa Volpi vinta per il ruolo del reverendo Lancaster Dodd in “The Master” è solo un pallido ricordo e l’ago si ripresenta appuntito a domandare il suo tributo di vita e di arte.

A raccoglierne il testimone ci sta pensando il figlio maggiore Cooper Alexander già impiegato da Paul Thomas Anderson, che aveva diretto il rosso in sei pellicole, fra cui il fortunatissimo The Master, come protagonista di Licorice Pizza (qui la nostra recensione) nella speranza che il talento del padre non venga disperso e forse dimenticato esattamente come il suo nome che era Philip Seymour Hoffman. Possibilmente non scordatelo mai.

Il suo nome era Philip Seymour Hoffman