Il diciannovenne Seth Davis decide d’iniziare a lavorare come agente di borsa presso la J.T. Marlin, una società che rifila telefonicamente, a ignari acquirenti, azioni di pessima qualità, le quali si convertono, per lui e l’agenzia, in milioni di dollari di guadagno e per i clienti in perdite quasi sempre rovinose.
Già dal titolo originale (Boiler Room) il regista Ben Younger, all’epoca dell’uscita della pellicola appena 28enne, svelava cosa si racchiudesse nelle pieghe di una narrazione che prendeva spunto dalla sua esperienza di agente di borsa. Successivamente lo vedremo impegnato in bilico fra articoli scritti per il New Yorker e il mai sopito amore per il mondo della settima arte.
L’esperienza nel mondo degli affari di Wall Street per Younger era maturata in quel sottobosco di piccole realtà rappresentate dalla J.T. Marlin. Società guidate da personaggi molto simili allo spietato Jim Young (Ben Affleck). Avido esattamente come il Gordon Gekko da lui ammirato e doppiato per gioco nel corso di una visione serale di Wall street (id.; 1987) organizzata a benefico dei propri collaboratori.
Tornando al titolo la Boiler Room è una pratica fraudolenta che spinge il potenziale acquirente a investire i propri averi in titoli azionari di scarso valore. Persuaso da tecniche di vendita che lo pongono sotto pressione con il pericolo di stare perdendo ‘l’affare della vita’. Date le premesse quello che avviene nel corso della pellicola ne rappresenta una logica conseguenza.
La Wall Street lambita da Younger, siamo a un km circa di distanza, viene intravista tramite gli occhi cerchiati da occhiaie, di Seth Davis, uno splendido Giovanni Ribisi, che troppo spesso è stato relegato a semplice comparsa in film di successo, ma che consigliamo di recuperare nella sua interpretazione da protagonista in Sneaky Pete (id.; 2015 – 2019). Una serie che con questa pellicola ha molto a che spartire.
Ribisi ruba l’anima del film impersonando il ruolo di uno studente di economia fuori corso, che inizia la sua carriera di agente di borsa con voce fuori campo e con fare profondamente pratico. In bilico fra un rapporto difficile da mantenere con un padre giudice, alla ricerca della sua approvazione, e il desiderio di farcela, come nel caso de Il Lupo di Wall Street (The Wolf of Wall Street; 2013) Jordan Belfort.
Ribisi riesce a superare ampiamente il ruolo affidatogli da Younger, per quel che riguarda il mondo dell’alta finanza, così come vi riesce un Vin Diesel alla larga per una volta da ruote, motori e dai film d’azione, e che vediamo nel ruolo di un broker, ovviamente super muscoloso, e altrettanto ampiamente centrato.
Un film che alla fine presenta il lato più malato del capitalismo, quello delle truffe e del mondo della finanza fraudolenta. Unico vero peccato per un finale decisamente troppo buonista che non s’addice a uno splendido esordio che si posiziona non troppo distante rispetto al pluricitato Wall Street di Oliver Stone.