Il film è un viaggio imprevedibile fra generi diversi e strati diversi di realtà, un film in cui finzione e realtà risultano “diegetici” contemporaneamente…
Rick Dalton, un attore televisivo, e Cliff Booth, la sua controfigura, intraprendono una personalissima odissea per affermarsi nell’industria cinematografica nella Los Angeles del 1969, segnata dagli omicidi di Charles Manson…
Quentin Tarantino ci ha da sempre abituati ai suoi capricci. Dapprima i capricci narrativi di Pulp Fiction, con regole dell’intrattenimento che venivano riscritte ad ogni sequenza; dopo, i capricci storici, che rivedevano accadimenti reali in una chiave inedita a partire da Inglorious Basterds; e infine il nuovo inedito capriccio di Once Upon A Time in Hollywood, un capriccio “cinematografico” tout court. E le regole sono cambiate ancora. Il film è un viaggio imprevedibile fra generi diversi e strati diversi di realtà, un film in cui finzione e realtà risultano “diegetici” contemporaneamente. Per spiegarsi meglio: certe sequenze passano dalla finzione alla realtà senza alcuna soluzione di continuità, richiamando alla differenza fra i due livelli solo con un gesto di macchina da presa, il che la dice lunga su ciò che Tarantino intende per artigianato del cinema.
Once Upon a Time in Hollywood, senza entrare in troppi dettagli narrativi, può definirsi probabilmente un film mortuario, un film in cui il concetto di intrattenimento arriva ad un punto zero, con dilatazioni temporali inedite per il regista, continue parentesi non sempre autoconcluse e coerenti, e una trama praticamente inesistente. Eppure il film non è nemmeno un trip da flaneur pynchoniano fra festini, star system, droga e hippies, è un’altra cosa ancora. È un film di continua rimessa in discussione di ciò che si vede.
Il confine con il cinema sperimentale si fa più labile, se pensiamo che il film fluttua in una sospensione del tempo e dello spazio che raramente al cinema si incontra: le narrazioni e le situazioni si aprono talvolta senza chiudersi, le icone dei Seventies si susseguono entusiaste con bruciante energia ma spesso decontestualizzate, e le modalità di messa in scena si mischiano, anche senza senso alcuno. Tutto quello di cui si parla in Once Upon A Time in Hollywood fa parte di un pot pourri debordante e slabbrato terribilmente destabilizzante perché disciolto in un ritmo che raramente diremmo tarantiniano, fatta eccezione per l’esplosivo finale.
La chiave di lettura del film è data da una sequenza apparentemente insignificante: un pianosequenza di svariati minuti di un televisore in cui si vede un action interpretato da DiCaprio, attore anche nella finzione. La scena che seguiamo dovrebbe entusiasmarci, coinvolgerci, esattamente alla maniera tarantiniana. Ma arriva in un contesto diverso, quello della finzione scenica al di qua – o per meglio dire, tutt’attorno – della televisione, poiché il pianosequenza è la soggettiva di DiCaprio e Pitt che guardano la televisione. Si avvertono improvvisamente un’alienazione e uno straniamento rispetto all’azione, rappresentata ma non vivibile, lontana e irraggiungibile; si avverte un discorso metacinematografico che non ha più niente a che fare con la razionalità, ma piuttosto con la maniera in cui quello che vediamo possa essere realtà o meno secondo il modo in cui percepiamo i contorni dell’immagine, i contorni della scena. È difficile spiegare quello che Once Upon A Time in Hollywood dimostra con il candore del montaggio e la semplicità del capolavoro.
Si può dire che le regole dell’intrattenimento sono state riscritte, o sono quantomeno da rivedere. Ed è tanto per un Cinema che sembra sempre più privo di speranze di cambiare davvero. Bello da star male….
Il film prodotto da Columbia Pictures viene distribuito per il mercato Home Video da Universal Pictures e presentato nel formato di 2,39:1 con codifica a 1080 p. La confezione presa in esame è una semplice Amaray dalla colorazione bianca, bella graficamente ma priva di Artwork interno. Il film è stato interamente girato in pellicola variando il formato (35mm, 16mm, 8mm) e l’aspect ratio (2.39:1, 4:3, 1.85:1) per poi essere finalizzato in un Master Intermediate 4K. Il risultato finale è di altissima qualità, con immagini sontuose che bucano letteralmente lo schermo e ci regalono un quadro video di grande impatto e ricchissimo di dettagli.
Siamo davanti a un film che, per scelta stilistica di Tarantino e del direttore della fotografia Robert Richardson, ha un quadro video particolare con una miriade di colori pastello viranti al giallo e da una grana tipicamente cinematografica. Nonostante queste peculiarità e grazie anche a un Bitrate medio particolarmente elevato, siamo sempre in presenza di immagini perfette e che ci regalano un’infinità di informazioni sia in primo che secondo piano. Esemplare il livello del nero. Contrasto e luminosità sono sempre gestiti al meglio e la resa dei colori è magnifica. Perfetti gli incarnati e i primi piani dove veramente possiamo cogliere ogni minimo dettaglio…. Stratosferico!
Comparto audio composto da quattro tracce: DTS-HD 5:1 Master Audio per Inglese e Tedesco e Dolby Digital 5:1 per Italiano e Portoghese. La traccia in italiano è comunque buona e dalla dinamica sufficente ma nulla di più. La qualità globale funziona e i vari canali riescono a creare un discreto campo sonoro. Anche il Subwoofer interviene in alcuni momenti risultando di buon impatto. Da rimarcare un canale centrale pulito che regala dialoghi cristallini. Di un’altro pianeta la traccia inglese, strabordante di potenza e precisione. Assolutamento consigliata.
Comparto Extra esplosivo e interessante con circa 60 minuti di materiale da visionare:
7 Scene aggiuntive (20′)
La lettera d’amore di Quentin Tarantino a Hollywood (5′) Featurette composta da filmati e interviste al cast e alla troupe che elogiano il talento del regista e i suoi ricordi di Hollywood.
Bob Richardson – Per l’amore del film (4′) Featurette sul lavoro del direttore della fotografia.
Parliamo di lavoro – Le auto del 1969 (6′) Uno sguardo ai veicoli vintage del film.
Ricreare Hollywood – La scenografia di C’era una volta… a Hollywood (10′) Lunga featurette che ci illustra il lavoro eseguito da Barbara Ling sul design per rendere il film il più autentico e accurato possibile nel ricreare il periodo in cui si svolge la vicenda. Interessante.
La moda del 1969 (7′) Featurette che ci spiega il lavoro di Arianne Phillips per realizzare i costumi del periodo, con particolare attenzione a quelli di Sharon Tate.