Recensione film “Morto Stalin se ne fa un altro” di Armando Lannucci. Nel 1953, esattamente il 5 marzo, Josif Stalin fu colpito da emorragia cerebrale e di lì a poco morì. Grandi le commemorazioni, gli omaggi e le lodi dedicate al dittatore georgiano. Tra cui quella di “genio dell’umanità” (che non aveva), umanità che aveva umiliato e represso violentemente negli anni di dominio assoluto al Cremlino.
Un’idea, quella socialista, vituperata e piegata da una avida sete di malcelate ingiustizie.
Sotto l’insegna propagandistica di un mondo retto da fratellanza, giustizia, uguaglianza trasformata esattamente nel suo contrario, vittima di un’ossificazione paranoide del potere.
L’arbitrarietà e la durezza delle scelte politiche ed economiche, collettivizzazione forzata, piani quinquennali associati alla repressione del dissenso, negata per anni da parte della sinistra filo-sovietica in Occidente, conferirono un’aura quasi “demoniaca” all’esperienza sovietica.
Annoverata tra le peggiori dittature del globo terracqueo dando anche la stura al peggior anticomunismo. Il maccartismo che colpì la società civile americana negli anni ’50 e da noi sotto le tristi bandiere del nostalgismo di marca repubblichina.
La commedia noir di Armando Lannucci ricostruisce con sarcasmo e un tocco di divertissment la situazione all’indomani della scomparsa di Baffone
preceduto da “Addavenì”, pronunciato a denti stretti da chi era fermamente convinto dell’esperimento sovietico. Con le dinamiche tra i membri del governo, ministri e generali smaniosi di non mollare i propri privilegi. Ma soprattutto di colpire chi in quel momento era caduto in discredito, quel Berija già capo della famigerata polizia segreta NKVD e poi per un breve periodo nel 1953 della MVD.
Berija qui fu assassinato a freddo, non dissimilmente da come probabilmente avvenne nelle realtà. Il film scorre leggero in un’atmosfera pesante, alcune scene sono surreali. Dal ritratto del figlio di Stalin, Vasilij perennemente ubriaco e ingovernabile, alla preparazione del funerale del dittatore curato da Nikita Chruščёv e non suscita. La risata è lieve, amara, sconsolata su ciò che è stato e avrebbe potuto essere l’Unione Sovietica.
Un plauso agli attori. Tutti stanislavksiamente presenti e vivi (tra cui spiccano in gran spolvero Steve Buscemi-Nikita Chruscev e Jason Isaacs-Georgij Zukov) in questo psicodramma quasi beckettiano, un festival dell’assurdità del potere, irriso spesso dai più ma temuto dai molti.
Morto Stalin se ne fa un altro di Armando Lannucci.